Fondamenta in roccia asfaltica, gradini, scale interne ed esterne, piastrelle, condotte dell’acqua. Un sacco di cose a Ragusa e nei comuni limitrofi sono fatte di calcare bituminoso, asfalto che, anche economicamente parlando, ha fatto la storia di un pezzo di Sicilia. Da qui il minerale veniva esportato per asfaltare le strade, per estrarne olii lubrificanti e combustibili.

Sono stati gli anni tra la fine del diciannovesimo secolo e la metà del ventesimo, ad assistere al boom di un’attività che ha occupato migliaia di persone portando lavoro e sviluppo economico

Dal 1693 i ragusani, i modicani, gli iblesi, costruirono case patrizie e popolari, chiese e monumenti in calcare bituminoso.

Nel 1855 venne avviata una vera e propria industria dell’asfalto a due o tre chilometri dalla Ragusa di allora. E dal 1855 al 1885 i trecento ettari di quella che sarebbe stata poi definita come la zona mineraria asfaltica, furono tutti venduti o affittati a compagnie straniere. Le due guerre mondiali bloccarono questa fiorente attività. Solo nel 1950, all’inizio della ripresa economica, si avviò il progetto di un cementificio a Ragusa che avesse come materia prima l’asfalto. L’esperimento funzionò: la A.B.C.D., Asfalti, Bitumi, Cementi e Derivati, produceva il cemento derivato dall’asfalto. Il ciclo consisteva nell’estrarre la roccia, distillare il bitume (che finiva come combustibile per muovere i forni), dentro i forni il residuo, ossia il calcare senza bitume, quell’inerte che veniva buttato in una discarica, lungo un pendio formando una montagna osservabile dalla strada per Modica. È il 1968 quando, abbandonata la coltivazione delle miniere, finisce un’epoca.